martedì 25 novembre 2014

C'è una domanda che non trova risposta.

C’è una domanda che non trova risposta. Perché in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa da un marito, un fidanzato, spesso compagni o ex compagni di anni di vita, padri di figli cresciuti insieme? «Come si fa ad ammazzare una ragazza per un litigio?», chiedeva il papà di Vanessa Scialfa, la giovane di Enna vittima a primavera, appena ventenne, del suo convivente. E c’è una seconda domanda che ci disorienta. Perché una donna — adulta, libera — al primo spintone, o anche alle prime parole selvagge, non allontana da sé per sempre l’uomo che la sta minacciando? Gli resta invece accanto, preferisce ripetersi «non sta succedendo a me» e prepararsi il giorno dopo a dire ai figli — poi ai colleghi, agli amici — che non è niente, che ha di nuovo sbattuto contro la porta.

La verità è che qualcosa esplode nella coppia e brucia l’amore, lo capovolge, lo profana fino all’estremo. Rivela che quella relazione non era fondata sulla meraviglia e sulla cura l’uno dell’altra; ma sulla costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna. Il potere maschile resta intrecciato all’ordine sociale e continua a lavorare «nell’oscurità dei corpi»: squilibra i rapporti e i ruoli, presidia la cultura e il linguaggio, cerca di riaffermarsi nelle scuole e nelle famiglie.

La «violenza domestica» — quella subita dagli uomini di casa, anche padri o fratelli — è la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 16 e i 44 anni: più degli incidenti stradali, più delle malattie. Per questo dobbiamo subitoliberarci dell’idea del mostro, o di tanti mostri, dobbiamo sottrarci a quella reazione immediata che ci porta a dire: io non sono così, noi siamo normali. La violenza sulle donne, che in alcuni casi si spinge fino all’omicidio definito per la prima volta «femminicidio» da una sentenza del 2009, non è una collezione di fatti privati: è una tragedia che parla a tutti. Soprattutto, che riguarda tutti gli uomini. Ora noi sappiamo che non sarà un appello, una nuova Carta dei diritti, non saranno uno spettacolo, un documentario, un’inchiesta o un libro a fermare la strage delle donne; neanche le migliori leggi — pur necessarie — basteranno.

Eppure parlarne, scrivere, raccontare le storie, trovarsi numerosi in questa domenica di fine novembre, muoversi insieme, donne e uomini, andare nei teatri o nelle strade con un pensiero comune anti-violenza: tutto questo è un passo importante per capire. E capirci qualcosa aiuta noi a superare quel senso di turbata estraneità che ci prende davanti ai fatti di cronaca e aiuta magari le vittime, almeno alcune tra loro, a scuotersi e salvarsi in tempo.
Oggi la Convenzione «No More!» — che nelle ultime settimane ha raccolto migliaia di adesioni tra organizzazioni e persone molto diverse tra loro — sarà portata nelle piazze. E’ il punto di arrivo di un impegno civile diffuso che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha riconosciuto e incoraggiato. In questa giornata, sarebbe già un conforto poter pensare che il silenzio è rotto. Femminicidio non è una bella parola, è vero, ma stiamo imparando a pronunciarla per dare finalmente un nome, che suona antico e non lo è affatto, all’uccisione delle donne perché donne.
Dalla 27 ora.it

giovedì 20 novembre 2014

20 Novembre – Giornata internazionale per i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza

Il 20 Novembre, come tutti gli anni, si celebra la Giornata mondiale per i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, data in cui la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia venne approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, nel 1989.
 
La Convenzione ha avuto come scopo quello di garantire importanti diritti universalmente riconosciuti anche ai bambini, sradicando l'idea del bambino come oggetto dedito esclusivamente a tutela e protezione. In particolare, sono stati garantiti il diritto al nome, alla sopravvivenza, alla salute e all'educazione, alla dignità e alla libertà di espressione. La ratifica del trattato consentì di raggiungere notevoli risultati, come la cessazione delle punizioni corporali, la creazione di più potenti ed efficaci sistemi di giustizia minorili, distinti e separati dalla consueta legislazione degli adulti.
 
Ma attualmente questi diritti vengono effettivamente rispettati?
 
Certo è che l'attuale situazione politica, economica e sociale non aiuta. La crisi economica e lavorativa, le difficoltà a cui vanno incontro giornalmente le famiglie sono tutti fattori che inevitabilmente toccano e impattano anche quella che dovrebbe essere l'innocente e spensierata vita quotidiana di bambini e bambine. E i dati ce lo dimostrano. Nel mondo circa 50 milioni di bambini tra i 6 e i 15 anni non hanno accesso all'educazione di base, secondo le stime di Save The Children e di Education for All Global Monitoring Report dell'Unesco. Questi numeri sono ancora più evidenti nei paesi dilaniati da guerre e distruzioni.
 
Indipendentemente dall'età, i bambini sentono il disagio e ne vengono segnati. Essi possono essere considerati come argilla fresca: continuamente in evoluzione verso il loro futuro e verso la loro forma definitiva, ogni impronta lascia il segno e influenza il loro sviluppo. E a tal proposito diviene quasi d'obbligo citare Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace. La giovane attivista pakistana si è battuta e si batte tutt'ora per garantire i diritti civili ed in particolare il diritto all'istruzione delle donne del suo Paese e di tutti i bambini del mondo. Ciò a riprova del fatto che non importa l'età o la maturità: i disagi minorili sono forti e tutti ne risentono, minori compresi. Proteggere i più piccoli nel miglior modo possibile è tutt'oggi una delle sfide più ardue e allo stesso tempo delicate, poiché, con la loro infinita sensibilità, i bambini percepiscono per primi i disagi, le discriminazioni e le sofferenze, sia circoscritte al proprio nucleo familiare sia relative alla situazione dell'intero Paese.
 
Oltre il dato educativo altri sono le statistiche che rendono la situazione ancora più drammatica. Infatti secondo il rapporto di Save The Children sullo sfruttamento minorile al mondo sono circa 5,5 milioni i "piccoli schiavi invisibili" impiegati in tutti i settori lavorativi esistenti, dall'agricoltura ai servizi, e tra loro anche vittime di tratta ai fini dello sfruttamento sessuale. In Europa il maggior numero di vittime accertate e presunte è stato segnalato in Italia, pari a quasi 2.400 nel 2010, con un calo rispetto ai 2.421 del 2009 ma un notevole aumento rispetto ai 1.624 del 2008. Nel 2014, sono stati riscontrati un numero sempre crescente di minori arrivati nel nostro Paese:  2.737 sono i non accompagnati eritrei arrivati in Italia dall’1 gennaio al 31 luglio 2014: dieci volte di più rispetto a quelli arrivati nello stesso periodo nell’anno precedente (242). E questo numero è in continuo aumento, assieme a quello di minori di nazionalità afgana. Questi, una volta qui sono ad altissimo rischio di sfruttamento.
 
Al primo posto tra le emigrazioni risultano, tuttavia, le adolescenti nigeriane, le quali sono maggiormente coinvolte nella tratta di esseri umani per scopi sessuali. Nel dossier 2014 si conferma inoltre che quello delle minori adolescenti provenienti dai paesi dell’Est Europa è in crescente aumento nel fenomeno della  tratta a scopo di sfruttamento sessuale in Italia. Lo sfruttamento avviene sia in strada che al chiuso, sotto il controllo di uomini che ne governano le promiscue relazioni sociali e abitative. Secondo il rapporto di ECPAT le minori sfruttate vengono "educate" a percepire i favori sessuali come un dovere, facendole sentire di proprietà dei loro protettori. E all'interno di questo contesto, stanno aumentando in maniera esponenziale i casi di spose bambine. Le adolescenti Siriane rifugiatesi in Giordania hanno contratto il matrimonio in età prematura nel 48% dei casi, con uomini di dieci anni più grandi se non di più. La grande differenza di età non fa che aumentare il rischio di violenze, abusi e sfruttamento. Inoltre, al matrimonio precoce seguono anche l'inevitabile abbandono scolastico e gravidanze altrettanto precoci, pericolose tanto per le neo-mamme quanto per i nascituri, come sostenuto da UNICEF nel suo rapporto sulla protezione dei diritti dell'infanzia, da cui emerge che circa 70 milioni di ragazze si sono sposate in età minorile.
 
Infine, ma non per importanza, è degno di nota il fenomeno ormai fin troppo diffuso dei bambini soldato, una delle più pesanti violazioni dei diritti umani e dell'infanzia. Il paese con più casi è l'Africa, considerata l'epicentro della cosa. Le Nazioni Unite stimano che nella guerra in Liberia abbiano combattuto all'incirca 20.000 bambini, circa il 70 % dei soldati attivi nelle varie fazioni. Idem il Sudan, che conta tra 100 mila bambini che prestano servizio su entrambi i fronti di una guerra che dura da più di vent'anni. Ma il fenomeno dei bambini soldato è presente anche il Medio Oriente (Algeria, Azerbaijan, Egitto, Iran, Iraq, Libano, Tagikistan, Yemen) e America del Sud (Colombia, Equador, El Slavador, Guatemala, Messico (Chapas), Nicaragua, Paraguay e Perù). Non è raro inoltre che, come riportato dalle ricerche sul caso svolte sempre da UNICEF, i bambini si arruolano più per necessità che per costrizione: vivendo in veri e propri campi di battaglia, si sentono più al sicuro all'interno di un qualche battaglione di soldati e armati.
 
Finché tali fenomeni continueranno ad esistere, vi saranno ancora bambini a cui verrà negato il diritto di godere dell'infanzia, uno dei periodi più importanti ed imprescindibili nella vita di ognuno.
 
Garantire che i diritti sanciti dalla Convenzione siano rispettati quindi è tanto nell'interesse dei bambini quanto nel nostro: sono questi ultimi che rappresentano il futuro ed è necessario partire da loro per garantirne uno migliore e soddisfacente per tutti.
E in un mondo sempre più globalizzato e multiculturale è importante che tutti abbiano gli stessi diritti e che le differenze vengano appianate. Difficilmente un bambino percepisce un suo coetaneo come diverso: nella sua naturalezza e genuinità tutti siamo uguali, non importa la razza, la lingua o le tradizioni. Ed è importante che non vengano perpetuate quelle opinioni che hanno caratterizzato e diviso popoli e Paesi per troppo tempo.
 
I bambini hanno tanto da imparare da noi, ma anche noi abbiamo tanto da imparare da loro.
 

Laura Montorselli

L’esperienza di “Paperboy”: diversamente abili alla scrittura e la testata che richiama il videogames

SALERNO- «Io scrivo per me, per togliermi un poco di dolore che avevo dentro al cuore, non avevo nessuno che mi capisse, avevo la scrittura». Così Annamaria Sersante, 22 anni studentessa di editoria e pubblicistica, racconta la sua esperienza a “Paperboy”, unica testata giornalistica in Italia realizzata da persone diversamente abili; nata a Salerno nel dicembre del 2013, progetto pilota del “Laboratorio Giornalistico Sociale” a cura della Cooperativa Sociale “Il Villaggio di Esteban”e dell’Associazione Culturale “Giovamente”. La redazione di Paperboy, la sede è offerta dai servizi sociali, è composta da 15 ragazzi ospiti quasi esclusivamente delle cooperative e delle associazioni coinvolte nel progetto (ragazzi disabili, autistici, ospiti delle case famiglie, ecc), accomunati dalla passione per il giornalismo, ma anche desiderosi di affrontare un’esperienza formativa che dia loro una futura occasione di realizzazione. «La cosa bella di questa iniziativa è che prende vita, già in partenza, in maniera diversa, sottolinea Umberto Adinolfi, giornalista professionista e direttore di Paperboy – . Oltre a formare i ragazzi con basi di storia del giornalismo, deontologia, tecniche di impaginazione, dà loro la possibilità di avere in futuro uno sbocco professionale, oltre che una soddisfazione a livello reddituale. Tutto nasce, cresce e resta nelle loro mani e quando tra due anni, al termine del praticantato, saranno pubblicisti, sceglieremo tra loro il nuovo direttore».
Sono davvero “diversamente speciali” ,come dice il direttore, i ragazzi, parte di un gruppo affiatato che si riunisce tre volte a settimana occupandosi della pagina web del mensile, del lavoro di redazione con uno psicologo che li assiste nel coordinare il gruppo e della teoria e tecnica giornalistica. «Urlano la loro situazione nel silenzio generale del mondo della comunicazione e del giornalismo- continua il direttore- come lo strillone del famoso videogioco dal quale prende il nome questa realtà». Luca Boffa urla il suo amore per il cinema, per il Canada e quel viaggio che vuole tanto fare; Titti La Marca il suo desiderio che si creino nuove occasioni per i disabili, perché dice che ce ne sono poche; Matteo Vicinanza la gioia dello stare insieme ad altri ragazzi; Carmine Cristiano la sua ambizione di diventare un giornalista importante, nonostante tenga il capo chino, la scrittura questo non lo nota. Annamaria torna a dire che vuole liberare i suoi elaborati dalla cartella del computer e che da grande vuole scrivere un libro di poesie per bambini perché «la felicità è importante averla dentro per averla fuori» dice. Per ora “Paperboy”, mensile composto da sedici pagine  che si occupa di cronaca, politica, attualità e terzo settore, si sostiene grazie agli abbonamenti, circa 200, (con un costo di 20 euro l’anno deducibili, interamente reinvestiti nella redazione), l’obbiettivo è quello di ingrandirsi,molte le richieste di partecipazione anche dalla scuole cittadine e riuscire a realizzare un laboratorio di prodotti per l’editoria, dal volantino alla carta intestata, in modo da rendere i ragazzi autonomi e dei professionisti qualificati dell’informazione.
di Sara Botte


domenica 16 novembre 2014

Postoccupato.

È un gesto concreto dedicato a tutte le donne vittime di violenza. Ciascuna di quelle donne, prima che un marito, un ex, un amante, uno sconosciuto decidesse di porre fine alla sua vita, occupava un posto a teatro, sul tram, a scuola, in metropolitana, nella società. Questo posto è riservato  a loro, affinché la quotidianità non  sommerga quanto avvenuto.


Si occupa un posto in un cinema, un teatro, un treno, sulla metro o a scuola, per lasciare un segno della nostra presenza: con un giornale, una borsa, un mazzo di chiavi, un cappello. "Quel posto è mio, tornerò ad occuparlo". Per molte, troppe donne, non sarà più così. POSTO OCCUPATO è un’idea, un dolore, un pensiero, una reazione che ha cominciato a prendere forma man mano che i numeri crescevano e cresceva l’indignazione di fronte alla notizia dell’ennesima donna assassinata. Ciascuna di quelle donne, prima che un marito, un ex, un amante, uno sconosciuto decidesse di porre fine alla sua vita, occupava un posto nella società, sul tram, a scuola, in metropolitana. Quel posto vogliamo riservarlo a loro, affinché la quotidianità  sommerga il dolore, l'assenza, il vuoto, per simbolizzare un’assenza che avrebbe dovuto essere presenza se non ci fosse stato l’incrocio fatale con un uomo che ha manifestato la sua bestialità, ammantandola di un “amore” che altro non è che disprezzo. Con un definitivo e ultimo gesto per sancire un presunto diritto di proprietà. POSTO OCCUPATO è partito il 29 giugno dall’anfiteatro della villa Comunale di Rometta (Messina), luogo di nascita di Maria Andaloro, editore della rivista online “La Grande Testata” e ideatrice del progetto. La prima fila dell’anfiteatro è stata occupata da un paio di scarpe rosse, da un mazzo di chiavi, da una borsa, lì cristallizzati a testimonianza di un delitto. La speranza di POSTO OCCUPATO è che il “contagio” si estenda anche alle altre città italiane, e che le Istituzioni, i Comuni, i Servizi di ogni genere e i luoghi di aggregazione sociale raccolgano l’invito a riservare un “posto” in memoria delle donne vittime di ogni forma di violenza. E che questa assenza urlasse la mostruosità del suo perché. Questa iniziativa si rivolge ai singoli cittadini così come alle Istituzioni, le Associazioni e agli Enti di ogni genere, che possono manifestare il loro sostegno con una semplice firma o in tutti i modi che riterranno opportuno. Vi invitiamo a inviare foto, comunicati, attestazione di adesione, che verranno di volta in volta pubblicati sul sito: www.postoccupato.org




mercoledì 12 novembre 2014

Un campo di volontariato per costruire la biblioteca di Lampedusa

La sezione italiana di Ibby, associazione fondata nel dopoguerra in Germania, concluderà dal 15 al 22 novembre una raccolta di libri e un campo di lavoro per dotare l’isola di una struttura per bambini e ragazzi



Da due anni Ibby Italia sta lavorando per la costruzione di una biblioteca per i bambini e i ragazzi di Lampedusa, un servizio sino ad oggi inesistente sull'isola. A breve un nuovo campo di lavoro porterà un gruppo di volontari a contribuire in loco alla realizzazione di questo sogno "Per i mille bambini che popolano l'isola è un diritto avere una biblioteca a disposizione" spiega Deborah Soria, tra le volontarie di Ibby Italia impegnate nel progetto di cooperazione internazionale “Libri senza parole. Dal mondo a Lampedusa e ritorno”. Il programma prevede una raccolta di libri e una serie di campi di lavoro sull'isola, l'ultimo dei quali avrà luogo dal 15 al 22 novembre prossimo. La storia di Ibby è affascinante: l'associazione internazionale è stata affondata dalla tedesca Jella Lepman, ingaggiata nel dopoguerra dall’esercito americano come “esperta dei bisogni culturali ed educativi delle donne e dei bambini dell’area americana”. La Lepman pensò di ripartire dai libri, eliminati quasi del tutto sotto la dittatura nazista, e iniziò proprio dalla letteratura per i bambini, perchè “saranno i più piccoli che mostreranno poi agli adulti la via da percorrere”. Dando seguito alle idee della sua fondatrice, Ibby continua a portare i libri lì dove non ce ne sono, per sfamare le menti e creare ponti tra culture. Secondo il Rapporto sulla promozione della lettura in Italia 2013, curato dal Forum del libro, nel 2012 soltanto il 46% degli italiani ha letto almeno un libro, contro l’82% della Germania, il 70% della Francia e il 61,4% in Spagna; una famiglia su dieci non ha neanche un libro a casa e i comuni che non hanno nè biblioteche nè librerie sono numerosi.

















domenica 9 novembre 2014

Weapon of Choice: il potere distruttivo delle parole


Weapon of Choice” è un progetto fotografico, nato con l’obiettivo di mostrare “le cicatrici” conseguenti ad abusi verbali, soprattutto nei confronti dei giovanissimi. “Parole che diventano armi”.  Le immagini, scattate dal fotografo americano Richard Johnson, e pubblicate sul sitohurtwords.comdescrivono perfettamente il dolore, le ferite che ciascuno di noi può provare in tutti i casi di violenza verbale.


© Copyright: Richard Johnson/Weapon of Choice (www.hurtwords.com/)
Al progetto hanno partecipato molti bambini, cui è stata spiegata la finalità: così, all’interno di una lista, gli stessi hanno scelto le parole ritenute più offensive. La peggiore secondo i piccoli intervistati? “Stupido”. A pensarci bene, questo termine è pronunciato molto spesso, anche tra gli adulti, e quasi con leggerezza ormai: non viene dato più molto peso al reale significato. Ogni persona, però, ha la sua sensibilità e ciò che a me può sembrare “ironia”, non è detto che lo sia anche per gli altri.A parte il fatto che certe affermazioni, certi “nomignoli”, non hanno proprio nulla di ironico. Mai. E di situazioni spiacevoli potremmo citarne tante.

Proprio in questi giorni, purtroppo, siamo diventati spettatori mediatici di un altro crudele episodio di bullismo: un mix di aggressività, fisica e verbale. Il progetto Weapon of Choice ci dimostra che non esiste poi grande differenza, soprattutto quando è presente la volontà.

Una parola, un tono di voce, un gesto, possono essere distruttivi quanto più il soggetto attivo è consapevole delle sue azioni. Ho seguito alcuni dibattiti televisivi e alcuni commenti di cittadini comuni. Ho sentito dire “banale”, “scherzo”, “ragazzata”. Ho visto giustificare l’ingiustificabile.

Sentire certe considerazioni  è  avvilente. Immaginiamo, quindi, le sensazioni dei diretti interessati.
Torniamo a dare a gesti e parole il giusto valore. Smettiamola di ridicolizzare, insabbiare, semplificare sempre tutto: far finta di non vedere appesantisce il cuore.
E certe frasi, a lungo andare, diventano cicatrici dell’anima. 

www.hurtwords.com/

mercoledì 29 ottobre 2014

Reyhaneh, lettera alla madre.

Pubblichiamo la lettera di   Reyhaneh   alla madre. La redazione del blog di Be Equal ha scelto di non scrivere commenti nè di pubblicare foto a lato del testo. 


«Cara mamma,
oggi ho scoperto che è arrivato il mio momento di affrontare la Qisas (la legge del taglione in Iran, ndr). Mi fa male pensare che tu non mi abbia informato che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Perché non me l’hai detto? Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di mio padre? 
Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella notte terribile sarei dovuta essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificarmi e solo in quel momento avresti capito che sono anche stata stuprata
Non avrebbero mai trovato l’assassino visto che non siamo ricchi come lui. Tu avresti vissuto soffrendo e vergognandoti e saresti morta per colpa di questo dolore.
Con quel "maledetto colpo" la mia vita è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da nessuna parte, ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. Poi in quella di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti: tu sai bene che la morte non è la fineProprio tu mi hai insegnato che si vive per fare esperienze e imparare. Ogni persona che nasce ha sulle spalle una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna lottare.
Mi ricordo quando mi hai detto che l’uomo che guidava la carrozza ha protestato contro l’uomo che mi stava fustigando, ma poi mi hai detto che lui l’ha colpito con la frusta in testa e in faccia, ed è morto. Mi hai insegnato che se uno crede in un valore ci deve credere fino alla morte.
Quando andavo a scuola mi hai insegnato che dovevo sempre comportarmi “come una signora” davanti alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto ci tenevi a questa cosa? Questo tuo insegnamento è sbagliato. Quando mi è successo questo incidente, il tuo insegnamento non mi è stato d’aiuto. Come mi sono presentata davanti alla corte mi ha fatto sembrare un’assassina fredda e premeditatrice. Come mi hai insegnato tu non ho pianto, non ho implorato perché credevo nella legge.
Ma sono stata anche accusata  della mia indifferenza davanti a un crimine. Tu lo sai, io non ho mai ucciso neanche una zanzara, per liberarmi dagli scarafaggi li sollevavo prendendoli dalle loro antenne. E ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato dal giudice come un comportamento maschile, ma non si è nemmeno preoccupato di notare che nel momento dell’incidente avevo lo smalto.
Che ottimista colui che crede nella giustizia. Il giudice non hai mai contestato il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, di un pugile. E questo Paese che amo grazie a te, non mi ha mai voluto. Nessuno mi ha sostenuto quando incalzata dagli inquirenti piangevo e gridavo per quei termini così volgari. Quando ho perso anche il mio ultimo segno di bellezza rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni di isolamento.
Cara mamma, non piangere per queste parole. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia un agente vecchia zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non è per quest’epoca. La bellezza di un corpo, dei pensieri, dei desideri, degli occhi, della bella scrittura e la bellezza di una voce. 
Cara mamma, i miei ideali sono cambiati e non è colpa tua. Le mie parole sono eterne e le affido a qualcuno così quando verrò impiccata da sola, senza di te, saranno date a te. Ti lascio queste parole scritte come eredità.
Comunque, prima della mia morte, vorrei qualcosa da te. Qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo Paese e anche da te. Lo so che hai bisogno di tempo per questa cosa, ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere questa lettera dalla prigione perché il capo non l’approverebbe mai, soffrirai ancora per me. È una cosa per cui potrai anche implorare, anche se ti ho sempre detto di non implorare per la mia salvezza.
Mia dolce madre, l’unica che mi è cara più della vita, non voglio marcire sottoterraNon voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le mie ossa e qualunque cosa possa essere trapiantata venga data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il mio destinatario conosca il mio nome, o che mi compri un mazzo di fiori o che preghi per me. Dal profondo del mio cuore ti dico che non voglio una tomba su cui tu puoi piangere. Non voglio che tu ti vesta di nero, fai il possibile per dimenticare questi giorni difficili. Dammi al vento che mi porti via.
Il mondo non ci ama, non ha voluto che si compisse il mio destino. Mi arrendo a esso e accetto la morte. Di fronte al tribunale di Dio accuserò gli ispettori, accuserò i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato e minacciato. Accuserò Dr. Farvandi, Qassem Shabani e tutti quelli che per colpa della loro ignoranza o delle loro bugie mi hanno messo in questa posizione e ucciso i miei diritti oscurando che a volte quello che sembra verità non lo è. Cara mamma dal cuore tenero, nell’altro mondo saremo io e te gli accusatori e gli altri gli accusati. Vedremo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti amo,  Reyhaneh».